I conti della Tasi, il nuovo tributo sui "servizi indivisibili" dei Comuni, non tornano: serve almeno un miliardo in più di assegno statale per evitare troppe manovre sulle aliquote, e due miliardi se si vuole alleggerire un po' la pressione fiscale. Ne sono convinti i sindaci, che ieri a Firenze hanno inaugurato la XXX assemblea nazionale dell'Anci e hanno esaminato a fondo i meccanismi del nuovo tributo. Prima nella commissione finanza locale e poi nell'ufficio di presidenza sono emerse le preoccupazioni crescenti degli amministratori locali che, con in mano le tabelle sulle proiezioni finanziarie dei loro Comuni, hanno lanciato l'allarme. Allarme subito rilanciato dal presidente dell'Anci Piero Fassino nella sua relazione: «Il miliardo garantito dalla legge di stabilità - ha detto il sindaco di Torino davanti al premier Enrico Letta e al Capo dello Stato Giorgio Napolitano - non basta, per partire ne servono almeno due». Anche perché il miliardo della legge non è aggiuntivo, ma si limita in pratica a pareggiare il dare-avere con la maggiorazione Tares, la cui "statalizzazione" operata nel Dl 35/2013 era stata accompagnata da una compensazione equivalente ai sindaci. Il rischio, insomma, è che le previsioni della legge di stabilità si traducano in un'impennata del Fisco locale, che in molti Comuni non riuscirebbe a pareggiare i conti. «Con tutte le aliquote al massimo ci mancherebbe qualche decina di milioni», calcola l'assessore al Bilancio di Genova, Francesco Miceli, e in grandi città come Milano e Roma il "buco" sarebbe ancora più largo (fino a toccare il centinaio di milioni nei casi peggiori, secondo le prime stime). Simile la prospettiva secondo l'assessore al Bilancio di Bologna, Silvia Giannini: «Noi - spiega - saremmo costretti a portare tutte le aliquote al massimo, e senza detrazioni, ma questo avrebbe effetti pesantissimi». «Il problema - riflette Alessandro Petretto - assessore al Bilancio a Firenze e ordinario di Economia pubblica - è maggiore nelle tante città che hanno le aliquote Imu già vicine al massimo, e che quindi non hanno spazi fiscali compensativi». Anche nei casi più fortunati, però, i problemi sono gravi: «È impensabile aggiungere pressione fiscale sulle imprese - riflette Luigi Marattin, assessore al Bilancio a Ferrara - ma per evitarlo dovremmo portare al massimo l'aliquota sulla prima casa». Il «massimo» evocato da tutti gli amministratori è il 2,5 per mille, senza detrazioni, che farebbe pagare 200 euro di Tasi a un'abitazione da 80mila euro di valore catastale, contro i 120 (o 70 se c'è un figlio convivente) chiesti dall'Imu standard nel 2012; con un meccanismo, inoltre, che colpirebbe anche i 5 milioni di case mai toccate dall'imposta sul mattone a causa del loro valore catastale medio-basso. Il problema è evidente, rischia di avere un impatto anche politico deflagrante ma nasce da una ragione matematica. Il gettito dell'Imu sull'abitazione principale (effettivo o coperto da compensazioni statali, in un quadro ancora tutto da definire) con le aliquote reali 2013 si avvicina ai 5 miliardi (e arriva a 6 se tutti spingessero l'aliquota al 6 per mille), e ai conti vanno aggiunti i 6-700 milioni di Imu sui rurali, che seguono la stessa sorte dell'abitazione principale. Totale: 5,7 miliardi (6,7 con l'aliquota massima). La Tasi, però, ad aliquota standard dell'1 per mille porta 3,7 miliardi, arriva a 4,7 con il miliardo "compensativo" previsto dalla legge di stabilita, e rischia di scaricare sulle scelte fiscali dei sindaci il compito di trovare quel che manca. Il problema, del resto, emergeva anche dal dossier preparato in estate dal Governo per illustrare le varie opzioni sull'Imu: la proposta numero 8, la più vicina a quella prefigurata dalla legge di stabilità, era infatti accompagnata dallo stanziamento di due miliardi aggiuntivi, proprio quelli che sembrano mancare oggi ai calcoli dei sindaci. I bilanci, è naturale, si fanno anche agendo sul lato della spesa, e su questo versante i sindaci rilanciano la sfida: «Noi facciamo la spending review ogni mattina», sostiene il presidente dell'Anci Fassino, che però non si tira indietro sulle sfide ancora da affrontare: «Le società partecipate - riconosce - sono caratterizzate da un'enorme e antieconomica frammentazione che spesso si traduce in deficit, organici eccessivi e servizi inefficienti, e bisogna intervenire con coraggio». La strada è l'aggregazione ma, rivendica il presidente Anci in uno dei passaggi più applauditi dai sindaci, «senza diktat da un'amministrazione statale invasiva che emana prescrizioni, impone vincoli e mortifica continuamente l'autonomia»; anche perché proprio l'esperienza delle partecipate insegna che questa strategia si traduce in regole dall'applicazione incerta e in termini «puntualmente disattesi». FONTE: IL SOLE 24 ORE |