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Posted - 07/06/2012 : 15:37:05 Guida all'Imu passo per passo di Sergio Trovato
Contribuenti alla cassa per il primo appuntamento con l’Imu. Entro il 18 giugno, infatti, i titolari di immobili, anche se adibiti ad abitazione principale, sono tenuti a pagare la nuova imposta locale. A differenza dell’Ici, sono obbligati al versamento del tributo non solo i possessori di fabbricati, aree edificabili e terreni agricoli, ma anche i proprietari di terreni incolti.
Il pagamento della prima rata dell’imposta municipale deve essere effettuato, senza applicazione di sanzioni e interessi, in misura pari al 50% dell’importo ottenuto applicando le aliquote di base e la detrazione di legge. La seconda rata, invece, dovrà essere versata a saldo dell’imposta complessivamente dovuta per l’intero anno con conguaglio sulla prima rata.
Mentre, l’imposta dovuta per l’abitazione principale e per le relative pertinenze può essere versata in tre rate: la prima e la seconda in misura pari a un terzo dell’imposta, calcolata applicando l’aliquota di base e la detrazione, va pagata rispettivamente entro il 18 giugno e il 16 settembre. Il saldo dell’imposta complessivamente dovuta per l’intero anno deve invece essere versato entro il 17 dicembre, con conguaglio sulle precedenti rate. Il contribuente ha però la facoltà, in alternativa, di pagare il tributo in due rate di cui la prima, entro il 18 giugno, in misura pari al 50% dell’imposta calcolata applicando l’aliquota di base e la detrazione, e la seconda, entro il 17 dicembre, a saldo dell’imposta complessivamente dovuta per l’intero anno con conguaglio sulla prima rata.
È espressamente previsto, però, che con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, che dovrà essere emanato entro il 10 dicembre 2012, potranno essere modificate aliquote e detrazioni Imu, sulla base del gettito della prima rata e dei risultati derivanti dall’accatastamento dei fabbricati rurali, per assicurare l’ammontare del gettito complessivo dell’imposta previsto per l’anno in corso. Entro il 30 settembre 2012, anche i comuni possono approvare o modificare il regolamento e la deliberazione relativa alle aliquote e alla detrazione del tributo.
Queste regole sono state introdotte dall’articolo 4 del dl sulle semplificazioni fiscali (16/2012) in sede di conversione (legge 44/2012). I contribuenti, dunque, potranno calcolare l’acconto Imu facendo riferimento alle aliquote di base e detrazioni previste dalla nuova disciplina del tributo. In sede di pagamento del saldo dovranno operare il conguaglio con quanto dovuto per l’intero anno in base alle aliquote e detrazioni deliberate dai comuni o modificate con Dpcm. Per il 2012, infatti, il termine per l’approvazione di regolamenti, aliquote e detrazioni Imu è stato prorogato al 30 settembre. Quindi, le deliberazioni potrebbero essere adottate dopo il termine fissato per l’acconto.
Per l’anno in corso l’acconto Imu potrà essere pagato entro il 18 giugno, considerato che il 16 giugno cade di sabato, calcolando il 50% dell’imposta con applicazione delle aliquote di base e detrazioni previste dall’articolo 13 del dl Monti (201/2011). Il conguaglio del tributo dovuto per l’intero anno dovrà essere effettuato con la seconda o terza rata a saldo (quest’ultima solo per l’abitazione principale) e va versato entro il 17 dicembre, in quanto il 16 è domenica. Bisogna ricordare che per le unità immobiliari adibite a abitazione principale, e relative pertinenze, è stata fissata un’aliquota base ridotta del 4 per mille, che i Comuni possono aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una detrazione di 200 euro, maggiorata di 50 euro per ogni figlio che risiede anagraficamente e dimori abitualmente nell’immobile, fino a un massimo di 400 euro, al netto della detrazione ordinaria. Per i fabbricati rurali strumentali, dal 2012 soggetti a imposizione, l’aliquota è del 2 per mille, che può essere ridotta all’1 per mille.
Mentre l’aliquota di base per tutti gli altri immobili, a partire dalle seconde case, è fissata nella misura del 7,6 per mille, che gli enti locali possono aumentare o diminuire di 3 punti percentuali. Una cosa certa è che il contribuente potrà versare l’imposta contestualmente con un unico modello ed è ormai chiaro che dovrà differenziare, con diversi codici tributo riferiti ai vari tipi di immobili (aree edificabili, terreni agricoli, altri fabbricati), la quota destinata ai Comuni e allo Stato. I codici tributo sono stati istituiti con la risoluzione 35/E, emanata dall’Agenzia delle entrate il 12 aprile 2012. Non è un compito facile calcolare il tributo dovuto, specialmente se i comuni hanno deliberato o delibereranno aliquote differenziate, in aumento o diminuzione rispetto all’aliquota base, a seconda della tipologia di immobili.
Soggetti passivi Solo il possesso di diritto di un immobile obbliga al pagamento dell’Imu. L’unica eccezione è rappresentata dal coniuge assegnatario dell’immobile, che è obbligato al pagamento della nuova imposta locale anche nei casi in cui non sia né proprietario né titolare di altro diritto reale di godimento sul bene. Il tributo è dovuto dai contribuenti per anni solari, proporzionalmente alla quota di possesso dell’immobile e in relazione ai mesi dell’anno per i quali il bene è stato posseduto.
Se il possesso si è protratto per almeno 15 giorni, il mese deve essere computato per intero. Va precisato che la prova della proprietà o della titolarità dell’immobile non è data dalle iscrizioni catastali, ma dalle risultanze dei registri immobiliari. In caso di difformità è tenuto al pagamento dell’Imu il soggetto che risulta titolare da questi registri (commissione tributaria regionale del Lazio, prima sezione, sentenza 90/2006). Quindi, per l’assoggettamento agli obblighi tributari non è probante quello che risulti iscritto in Catasto. Oltre al proprietario e all’usufruttuario, sono soggetti passivi anche il superficiario, l’enfiteuta, il locatario finanziario, i titolari dei diritti di uso e abitazione, nonché il concessionario di aree demaniali.
Rientra tra i diritti reali, poi, il diritto di abitazione che spetta al coniuge superstite, in base all’articolo 540 del Codice civile. Non è soggetto al prelievo fiscale, invece, il nudo proprietario dell’immobile. Allo stesso modo, non sono obbligati al pagamento dell’imposta il locatario, l’affittuario e il comodatario, in quanto non sono titolari di un diritto reale di godimento sull’immobile, ma lo utilizzano sulla base di uno specifico contratto. Che il semplice possesso non obblighi al pagamento dell’Ici, lo aveva chiarito la Cassazione (sentenza 18476/2005) a proposito del coniuge che risulti assegnatario dell’immobile, in caso di separazione. Secondo la Cassazione, se il giudice assegna a un coniuge l’abitazione dell’ex casa coniugale, il soggetto assegnatario non è tenuto al pagamento dell’imposta. Il giudice non ha, infatti, il potere di costituire diritti reali di godimento sull’immobile, quali quelli di uso e abitazione, ma può decidere solo in ordine all’attribuzione di un diritto personale sulla casa familiare a favore di un coniuge. L’assegnatario ha un diritto di godimento del bene di natura personale e non reale. Dunque, non dovrebbe pagare neppure l’Imu. Tuttavia il legislatore, in sede di conversione del dl 16/2012, con una evidente forzatura ha posto a carico dell’assegnatario dell’immobile l’obbligo di pagare il tributo.
L’articolo 4, comma 12-quinquies, del dl sulle semplificazioni fiscali prevede espressamente che, solo per l’Imu, l’assegnazione della casa coniugale a favore di uno dei coniugi, disposta a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, »si intende in ogni caso effettuata a titolo di diritto di abitazione». Bisogna inoltre ricordare che l’utilizzo di un immobile o il possesso di fatto non possono essere inquadrati giuridicamente come diritto d’uso. In base all’articolo 1021 del Codice civile, chi è titolare di questo diritto può servirsi della cosa che ne forma oggetto e, se è fruttifera, può raccogliere i frutti per quello che è necessario ai bisogni personali.
L’uso, dunque, è un diritto reale di godimento che attribuisce al titolare la facoltà di usare e godere della cosa, in modo diretto, per il soddisfacimento di un bisogno attuale e personale. Questo diritto viene costituito per contratto, testamento o usucapione.
I fabbricati Per la determinazione della base imponibile dei fabbricati il decreto Monti richiama la normativa Ici. L’articolo 13, comma 3 dispone che essa è costituita dal valore dell’immobile determinato ai sensi dell’articolo 5, commi 1, 3, 5 e 6 del decreto legislativo 504/1992.
Il metodo di calcolo della base imponibile è dunque uguale a quello già stabilito per l’Ici, ma si differenzia per l’applicazione alla rendita catastale, rivalutata del 5%, di coefficienti di moltiplicazione ben più gravosi, aumentati mediamente del 60%, con conseguente notevole incremento dell’imposizione. Per i fabbricati iscritti in catasto, il valore è calcolato sulla base delle rendite catastali, vigenti al 1° gennaio dell’anno di imposizione, moltiplicate per coefficienti individuati dalla legge per ogni singola categoria catastale. In particolare la rendita catastale rivalutata andrà moltiplicata per: 160 nel caso di fabbricati classificati nel gruppo catastale A e nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, con la sola esclusione della categoria catastale A/10; 140 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale B e nelle categorie catastali C/3, C/4 e C/5; 80 per i fabbricati classificati nella categoria catastale D/5; 80 per i fabbricati classificati nella categoria catastale A/10; 60 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale D, ad eccezione dei fabbricati classificati nella categoria catastale D/5, relativamente all’anno di imposta 2012, mentre a partire dall’1/1/2013, il moltiplicatore verrà elevato a 65; 55 per i fabbricati classificati nella categoria catastale C/1.
Si assiste quindi ad un generale incremento dell’imposizione, che vede penalizzate in misura maggiore le case di abitazione e le relative pertinenze, le botteghe e i negozi, laboratori per arti e mestieri. L’aumento dei moltiplicatori relativi agli immobili abitativi, Cat. A, subisce, infatti, un incremento del 60% (da 50 a 80 per gli immobili classificati come A/10, da 100 a 160 per i restanti immobili della categoria A). Nel caso delle pertinenze, il moltiplicatore aumenta del 40% (da 100 a 140). Uguale aumento percentuale hanno subito i laboratori per arti e mestieri (Cat. C/3), i fabbricati e locali sportivi (Cat. C/4) gli stabilimenti balneari (Cat. C/5) il cui coefficiente passa da 100 a 140. L’aumento per i negozi, Cat. C/1 è invece pari al 61,76%, considerato che il moltiplicatore viene portato da 34 a 55.
Meno incisivo l’aumento sui fabbricati a destinazione speciale di cui alla Cat. D che vedono un minore aumento del moltiplicatore, che passa da 50 a 60 nell’anno 2012 e a 65 a partire dal 2013, con l’eccezione solo degli immobili adibiti per l’esercizio delle funzioni di credito, cambio ed assicurazione per i quali l’aumento incide per il 60% (da 50 a 80). Nessuna variazione invece viene apportata per gli immobili iscritti nella categoria catastale B, locali pubblici o a uso collettivo, per i quali il moltiplicatore rimane invariato e per i fabbricati di tipo E, immobili a destinazione speciale, che nel silenzio della legge si debbono ritenere esclusi dall’imposizione Imu come lo erano dall’Ici. Diverso è il metodo di calcolo della base imponibile nelle ipotesi di demolizione di fabbricato o di interventi di recupero a norma dell’articolo 31, comma 1, lettere c), d) ed e), della legge 5 agosto 1978, n. 457, così come per l’ipotesi di utilizzo edificatorio del terreno.
In tali casi la base imponibile è costituita, ai sensi dell’art. 5, comma 6 d.lgs. 504/1992, dal solo valore dell’area, sino a quando sono ultimati i lavori di costruzione o ricostruzione dell’edificio o comunque fino al momento del suo effettivo utilizzo. Nelle ipotesi di edificazione di un fabbricato la base imponibile è data dal valore dell’area (non viene computato il valore del fabbricato in corso d’opera), dalla data di inizio dei lavori di costruzione fino a quella di ultimazione dei lavori, oppure fino al momento in cui il fabbricato è comunque utilizzato, se questo momento è antecedente a quello di ultimazione. Se il fabbricato non è ultimato o effettivamente utilizzato manca il presupposto. L’accatastamento, quindi, non costituisce ex lege il presupposto per il pagamento.
Il trattamento agevolato dell’abitazione principale Cambia ancora una volta la disciplina fiscale dell’abitazione principale. Dal 2008 al 2011 sono stati esonerati dal pagamento dell’Ici i titolari degli immobili adibiti ad abitazione principale o assimilati dai comuni alla prima casa, con regolamento adottato entro il 29 maggio 2008.
Sono state escluse dal beneficio solo le unità immobiliari iscritte nelle categorie catastali A1, A8 e A9 (immobili di lusso, ville e castelli). Una novità di rilievo è rappresentata dal fatto che i contribuenti sono tenuti a pagare l’Imu anche per gli immobili destinati ad abitazione principale e relative pertinenze, che dal 2008 al 2011 hanno fruito dell’esenzione. Per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente.
L’articolo 4 del dl 12/2012, in sede di conversione, ha fornito una nuova qualificazione giuridica della nozione di abitazione principale, allineandola a quella già stabilita per l’Ici, prevedendo che si intende come tale l’unità immobiliare nella quale il contribuente e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e le relative pertinenze si applicano per un solo immobile. Per pertinenze dell’abitazione principale si intendono esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un’unità pertinenziale per ciascuna delle suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto unitamente all’immobile adibito ad abitazione.
La legge prevede per queste unità immobiliari l’applicazione di una aliquota ridotta del 4 per mille, che i Comuni possono aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una detrazione di 200 euro, che può essere maggiorata di 50 euro per ogni figlio che risiede anagraficamente e dimora abitualmente nell’immobile, fino a un massimo di 400 euro, al netto della detrazione ordinaria. Mentre l’aliquota di base per tutti gli altri immobili, a partire dalle seconde case, è fissata nella misura del 7,6 per mille, che gli enti locali possono aumentare o diminuire di 3 punti percentuali. In base a quanto disposto dall’articolo 1 del decreto legge 93/2008, l’esenzione Ici si applicava anche agli immobili parificati dalla legge all’abitazione principale (appartenenti alle cooperative edilizie e assegnati ai soci) e a quelli assimilati dai Comuni (tra i casi più frequenti, la casa concessa in uso gratuito a parenti o l’immobile non locato dell’anziano o disabile residente in un istituto di ricovero). Con il nuovo tributo spetta il beneficio fiscale (detrazione) agli immobili parificati dalla legge all’abitazione principale (per esempio, appartenenti alle cooperative edilizie e assegnati ai soci).
Invece, non possono più fruire del trattamento agevolato gli immobili concessi in uso gratuito a parenti, prima assimilati dai comuni con regolamento all’abitazione principale. I comuni, invece, possono effettuare la scelta di estendere i benefici agli immobili posseduti da anziani e disabili, che hanno la loro residenza in istituti di ricovero e cura. Per gli immobili posseduti da anziani o disabili, e per quelli posseduti dai cittadini italiani non residenti nel territorio dello stato, l’articolo 4 del dl sulle semplificazioni fiscali ha dato la facoltà alle amministrazioni locali di assimilarli all’abitazione principale, a condizione che non risultino locati.
Il contribuente, però, può fruire delle agevolazioni per abitazione principale per un solo immobile, anche se utilizzi di fatto più unità immobiliari distintamente iscritte in catasto, a meno che non abbia provveduto al loro accatastamento unitario. Lo ha chiarito il dipartimento delle finanze del ministero dell’economia, con la circolare 3/2012. Rispetto a quanto previsto per l’Ici, la definizione di abitazione principale presenta dei profili di novità. L’articolo 13, comma 2, del dl 201/2011 prevede che per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.
Dalla lettura della norma, per il dipartimento, «emerge, innanzitutto, che l’abitazione principale deve essere costituita da una sola unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto a prescindere dalla circostanza che sia utilizzata come abitazione principale più di una unità immobiliare». Quindi, le singole unità vanno assoggettate separatamente a imposizione, ciascuna per la propria rendita. È il contribuente a scegliere quale destinare ad abitazione principale. Secondo la tesi ministeriale, la nuova disposizione consente di superare per l’Imu, «in maniera inequivocabile, i contrasti interpretativi tra prassi e giurisprudenza sorti in materia di Ici». L’interpretazione ministeriale, però, non può essere condivisa, in quanto richiama nella circolare il principio affermato per la prima volta dalla Cassazione (sentenza 25902/2008) per l’Ici, poi ribadito con altre pronunce, ma lo ritiene superato dalla nuova disposizione, secondo la quale il beneficio fiscale è limitato a una sola unità immobiliare, mentre le altre, ancorché utilizzate di fatto come abitazione principale, non possono fruire del trattamento agevolato.
Invece, anche per l’Imu il contribuente dovrebbe avere diritto all’aliquota ridotta e alla detrazione, qualora utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come abitazione principale, visto che l’articolo 13 richiede che si tratti di un’unica unità immobiliare «iscritta o iscrivibile» come tale in catasto. Occorre dare un senso alla formulazione letterale della norma che fa riferimento ai diversi immobili che sono potenzialmente «iscrivibili» come un’unica unità immobiliare. In questi casi, dunque, è sufficiente che sussistano due requisiti: uno soggettivo e l’altro oggettivo. In particolare, le diverse unità immobiliari devono essere possedute dallo stesso titolare (o dagli stessi titolari) e devono essere contigue.
E l’Agenzia del territorio dovrebbe certificare l’iscrivibilità come unica unita immobiliare. Del resto, la Cassazione più volte ha chiarito che ciò che conta è l’effettiva utilizzazione come abitazione principale dell’immobile complessivamente considerato, a prescindere dal numero delle unità catastali. Peraltro, per i giudici di legittimità, gli immobili distintamente iscritti in catasto non importa che siano di proprietà di un solo coniuge o di ciascuno dei due in regime di separazione dei beni. A patto che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono. Secondo la Cassazione, un’interpretazione contraria non sarebbe rispettosa della finalità legislativa di ridurre il carico fiscale sugli immobili adibiti a «prima casa».
La tesi della Cassazione, però, si pone in contrasto con quanto affermato dal dipartimento delle finanze del ministero, con la risoluzione 6/2002, richiamata anch’essa nella recente circolare, sui presupposti richiesti per usufruire dei benefici fiscali. Infatti il ministero già in passato, anche per l’Ici, aveva precisato che due o più unità immobiliari vanno singolarmente e separatamente soggette a imposizione, «ciascuna per la propria rendita». Il contribuente, per avere diritto all’agevolazione, era tenuto a richiedere l’accatastamento unitario degli immobili, per i quali fosse stata attribuita una distinta rendita, presentando all’ente una denuncia di variazione.
Terreni agricoli e incolti Sono soggetti al pagamento dell’Imu anche i terreni incolti che prima erano esclusi dal campo di applicazione dell’Ici. Oltre ai terreni agricoli la nuova imposta colpisce i terreni diversi da quelli fabbricabili e da quelli utilizzati per l’esercizio delle attività agricole. Dunque, anche quelli coltivati in modo occasionale. L’articolo 9 del decreto legislativo 23/2011, istitutivo della nuova imposta municipale, prevede che sono soggetti al prelievo i terreni. Mentre la disciplina Ici faceva esclusivo riferimento ai terreni agricoli. In effetti, i terreni sono suscettibili di produrre due tipologie di reddito.
Il reddito dominicale, che è quella parte di reddito che remunera la proprietà, e il reddito agrario, che consegue all’esercizio dell’attività agricola sul fondo. Il reddito dominicale si determina mediate l’applicazione delle tariffe d’estimo stabilite dalla legge catastale, per ciascuna classe e qualità del terreno. Il Ministero delle Finanze, con circolare n. 9 del 14 giugno 1993, ha delimitato la definizione di terreno agricolo ai fini Ici, precisando che non erano soggetti a imposizione i terreni che non avessero i requisiti propri né delle aree agricole né di quelle fabbricabili e precisamente: gli appezzamenti sui quali sono esercitate attività agricole solo occasionalmente, in forma non imprenditoriale, coltivati senza alcuna struttura organizzativa (cosiddetti «orticelli»); i terreni incolti o che risultano normalmente inutilizzati.
Terreni agricoli, secondo la definizione contenuta nell’articolo 2135 del Codice civile, sono quelli utilizzati per l’esercizio dell’attività agricola, ovvero la coltivazione del fondo, la silvicoltura, l’allevamento animali e le attività connesse. In base all’articolo 13 del dl «Salva-Italia» (201/2011), il valore dei terreni agricoli su cui calcolare l’imposta è ottenuto moltiplicando il reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell’anno di imposizione, rivalutato del 25%, per 135. La norma, invece, prevede un trattamento agevolato per i coltivatori diretti e gli imprenditori professionali iscritti nella previdenza agricola, per i quali il moltiplicatore di riferimento è ridotto a 110, anche se i terreni non vengono coltivati.
Quest’ultima previsione è contenuta nell’articolo 4 della legge di conversione del dl fiscale (16/2012), che rafforza ancor di più la tesi della tassabilità dei terreni inutilizzati. Per quanto concerne il soggetto obbligato al pagamento per i terreni incolti valgono le regole generali. È tenuto a versare l’imposta il proprietario o il titolare di altro diritto reale di godimento (usufrutto, uso). Pertanto, nel caso che un orto sia dato in comodato da un comune a un agricoltore, sull’immobile l’imposta non è dovuta perché il comodatario non è soggetto passivo e l’amministrazione comunale non è tenuta a versare la quota del 50% riservata allo stato.
Le aree edificabili Nulla cambia per l’imposizione delle aree edificabili con la disciplina Imu rispetto all’Ici. Il legislatore, infatti, richiama espressamente le disposizioni contenute negli articoli 2 e 5 del decreto legislativo 504/1992. Sia per quanto riguarda la qualificazione dell’oggetto d’imposta sia per la determinazione dell’imponibile occorre fare riferimento alla normativa Ici. Il valore dell’area, dunque, si determina prendendo a base il valore di mercato. Per definire gli aspetti controversi della nozione di area edificabile, il legislatore è intervenuto due volte con norme di interpretazione autentica. Anche l’Imu è dovuta se l’area è inserita in un Piano regolatore generale adottato dal consiglio comunale, ma non approvato dalla Regione. L’articolo 36, comma 2 del decreto-legge legge 223/2006 (manovra Bersani) ha chiarito che un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale deliberato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti attuativi. La qualificazione vale non solo per l’Ici, ma anche per l’Imu, le imposte erariali, dirette e indirette. E questa è una norma di interpretazione autentica con effetti retroattivi (si veda Corte di cassazione, sentenza 25506 del 30 novembre 2006 e Ctr Lazio, sentenza 238 del 3 ottobre 2006). La retroattività di questa disposizione, però, non è stata invece riconosciuta dalla Commissione tributaria regionale di Bologna (sentenza 79/2008). L’articolo 36 ha interpretato la norma che disciplina l’Ici (articolo 2 del decreto legislativo 504/1992), che a sua volta viene richiamata per l’Imu per quanto concerne la definizione e qualificazione giuridica di area edificabile. In effetti, che non fosse necessario un piano di lottizzazione per il pagamento dell’Ici era già stato disposto dall’articolo 11-quaterdecies, comma 16 del collegato alla Finanziaria 2006 (legge 248/2005). Non a caso, nella circolare 28/2006 l’agenzia delle Entrate ha precisato che con la norma del decreto Bersani (articolo 36) è stato esteso alle imposte sui redditi, all’Iva e al registro, il concetto di area edificabile contenuto nell’articolo 11-quaterdecies, il cui ambito applicativo era riservato alla sola imposta comunale sugli immobili. Ormai è chiaro che un’area è edificabile ed è soggetta all’imposta quando è inserita nel piano regolatore generale, anche se non approvato. Inoltre, il tributo è dovuto anche se la potenzialità edificatoria è solo parziale. Quello che rileva è il valore di mercato che avrebbe l’immobile in un’ipotetica vendita (in questo senso si è espressa la Commissione tributaria di secondo grado di Bolzano, prima sezione, con la sentenza 32 del 9 gennaio 2007). Per la qualificazione delle aree è dunque necessario fare riferimento al piano regolatore generale. In base all’articolo 2 del decreto legislativo 504/1992, per area fabbricabile si intende l’area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici «generali o attuativi» oppure in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti delle indennità di espropriazione per pubblica utilità. Nelle ipotesi di edificazione di un fabbricato, la base imponibile Ici è data dal valore dell’area (non viene computato il valore del fabbricato in corso d’opera), dalla data di inizio dei lavori di costruzione fino a quella di ultimazione, oppure fino al momento in cui il fabbricato è comunque utilizzato, se questo momento è antecedente a quello di ultimazione del fabbricato. In base alla finzione giuridica prevista nella disciplina dell’imposta (art. 5, comma 6, del decreto legislativo 504/1992) durante il periodo dell’effettiva utilizzazione edificatoria anche per demolizione e per esecuzione di lavori di recupero edilizio, il suolo va considerato area fabbricabile, indipendentemente dal fatto che sia tale o meno in base agli strumenti urbanistici. È evidente, quindi, che un’area è edificabile quando è inserita nel piano regolatore generale ed è soggetta all’imposta comunale sugli immobili indipendentemente dalla successiva lottizzazione del suolo. È il Comune, su richiesta del contribuente, che attesta se un’area sita nel proprio territorio sia edificabile. Pertanto, se lo strumento urbanistico è approvato dal consiglio comunale, l’ente può, dal momento dell’approvazione, richiedere il pagamento dell’Ici sul valore di mercato dell’area. Lo strumento urbanistico in corso d’approvazione certamente incide sulla stima del fondo in una libera contrattazione di mercato e, quindi, assume influenza nei rapporti negoziali. Sempre la Cassazione (sentenza 13817 del 18 settembre 2003) ha richiamato il principio già affermato dalle Sezioni unite (sentenza 5900/1997) che la deliberazione di adozione del piano regolatore conferisce allo strumento urbanistico efficacia immediata. La successiva delibera dell’organo regionale perfeziona lo strumento, ma ai fini tributari il terreno è un’entità valutabile sulla base della destinazione edificatoria. Questa destinazione è già recepita dalla generalità dei consociati come qualcosa di esistente e di difficile reversibilità, che fa venir meno ogni possibilità di diversa valutazione. Mentre per la caratteristica dell’edificabilità è sufficiente che essa risulti da un piano regolatore generale, la potenzialità di edificazione è maggiore quando l’area è ricompresa in un piano particolareggiato e ciò ha effetti nella determinazione del valore dell’area stessa e della quantificazione della base imponibile Ici. La potenzialità di edificazione tanto più é attenuata quanto maggiori sono le incertezze sulla effettiva possibilità di utilizzare il suolo a scopo edificatorio. Al riguardo, il Ministero delle Finanze, con la risoluzione n. 209/E del 17 ottobre 1997, ha affermato che «sul mercato il valore dell’area È man mano decrescente a seconda che si tratti di area per la quale È stata rilasciata la concessione edilizia, di area priva di concessione ma compresa in un piano particolareggiato, di area compresa soltanto in un piano regolatore generale». Ciò ha rilevanza, ovviamente, sulla quantificazione del valore dell’area. Non possono essere considerate fabbricabili soltanto le aree che sono assoggettate dagli strumenti urbanistici a vincolo di inedificabilità. Le aree sono soggette all’imposta anche se vincolate per essere espropriate. La destinazione edificatoria permane anche dopo la decadenza dei vincoli. Tuttavia, i limiti incidono sul valore venale del bene. Questa regola più volte affermata dalla Cassazione non è pacifica. Vi sono delle incertezze sulla tassabilità delle aree vincolate ai fini Ici e lo stesso problema si pone per l’Imu. L’orientamento dei giudici di legittimità è oscillante e continua a generare dubbi negli enti locali sulla possibilità che le aree soggette a vincoli urbanistici siano soggette al pagamento. Con l’ultima pronuncia la Corte di cassazione (ordinanza 16562 del 28 luglio 2011) ha stabilito che la qualifica di area fabbricabile non può ritenersi esclusa se esistono particolari limiti che condizionano le possibilità di edificazione del suolo. Anzi, i limiti imposti a un terreno presuppongono la sua vocazione edificatoria. Quindi, anche l’area vincolata destinata a essere espropriata è soggetta al pagamento del tributo. Con questa decisione i giudici hanno ritenuto che i limiti imposti dal Piano regolatore «incidendo sulle facoltà dominicali connesse alle possibilità di trasformazione urbanistico-edilizia del suolo medesimo, ne presuppongono la vocazione edificatoria». Peraltro, la destinazione dell’area «permane anche dopo la decadenza dei vincoli preordinati all’espropriazione» per finalità pubbliche. Tuttavia, secondo la Cassazione, i vincoli incidono «sulla concreta valutazione del relativo valore venale e, conseguentemente, della base imponibile». La pronuncia è in linea con quanto affermato dalla Suprema Corte con la sentenza 19131/2007, con la quale aveva sostenuto che l’Ici fosse dovuta su un’area edificabile anche se sottoposta a vincolo urbanistico e destinata a essere espropriata: quello che conta è il valore di mercato dell’immobile nel momento in cui è soggetto a imposizione. Quindi, la Suprema Corte aveva chiarito che l’Ici non «ricollega il presupposto dell’imposta all’idoneità del bene a produrre reddito o alla sua attitudine a incrementare il proprio valore o il reddito prodotto». Il valore dell’immobile assume rilievo solo per determinare la misura dell’imposta. L’area deve essere considerata edificabile anche se qualificata «standard» (area per attrezzature al servizio di insediamenti produttivi) e, quindi, vincolata a esproprio. I giudici di legittimità, invece, avevano preso posizione in maniera diversa con la sentenza 25672 del 24 ottobre 2008. Nello specifico, la Cassazione aveva stabilito che se il Piano regolatore generale del Comune prevede che un’area sia destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione urbanistica impedisce al privato di poter edificare. Dunque, l’area non poteva essere assoggettata al pagamento dell’imposta anche se l’edificabilità fosse prevista dallo strumento urbanistico. La natura edificabile delle aree comprese in zona destinata dal Prg a «verde pubblico attrezzato» impedisce ai privati la «trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di edificazione». In questi casi, la finalità è quella di assicurare la fruizione pubblica degli spazi. Il valore di un’area edificabile ai fini Imu deve essere determinato come per l’Ici. I criteri sono quelli fissati dall’articolo 5 del decreto legislativo 504/1992. Quindi, occorre stabilire il valore venale in comune commercio dell’area al 1° gennaio dell’anno di imposizione, vale a dire il suo valore di mercato. La norma prevede che occorra fare riferimento a zona territoriale di ubicazione dell’area, indice di edificabilità, destinazione d‘uso consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e, infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse caratteristiche. I valori possono essere deliberati anche dalla giunta, sulla base di una perizia redatta dall’ufficio tecnico. Tuttavia, la delibera emanata dalla giunta comunale che fissa i valori delle aree edificabili, e gli atti interni che la precedono, non devono essere allegati all’avviso di accertamento Ici o Imu. Inoltre, i valori deliberati dalla giunta sono meramente indicativi e equiparabili al redditometro. Dunque, il giudice ha il potere di ritenere illegittime le presunzioni su cui si fondano qualora il contribuente sia in grado di provare il contrario. In questo senso si è espressa la Commissione tributaria regionale di Potenza, prima sezione, con la sentenza 267 del 29 dicembre 2011. Secondo il giudice d’appello, «sono conoscibili tutti gli atti posti a base di un iter amministrativo non essendo coperti da segreto». E «il processo formativo di un atto potrebbe essere particolarmente complesso e richiedere un’innumerevole serie di passaggi e d’interventi di uffici diversi che sarebbe impensabile dover allegare tutti gli atti prodromici a quello finale che si riassume in una delibera dell’ente locale». La mancata indicazione nell’accertamento fiscale di questi atti interni non genera alcuna nullità, poiché il cittadino ha il diritto di richiederli in presenza di un suo interesse. Peraltro, la conoscibilità delle deliberazioni comunali si presume poiché sono soggette a pubblicità legale. Quindi, non devono essere allegate agli avvisi di accertamento anche se richiamate nella motivazione. La loro conoscibilità è presunta erga omnes e non devono essere allegate all’atto impositivo, nonostante l’articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/200) preveda l’obbligo di allegazione all’avviso di accertamento degli atti ai quali si fa riferimento nella motivazione. Questa norma, infatti, espressamente dispone che gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari devono indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama. Va però ricordato che l’articolo 6 del decreto legislativo 32/2001, che contiene le disposizioni correttive in materia di fiscalità locale, emanate in seguito all’entrata in vigore dello Statuto, ha disposto una parziale deroga al principio contenuto nell’articolo 7. Con questa norma il legislatore ha inteso agevolare il compito dell’amministrazione, consentendo di escludere l’allegazione dell’atto richiamato purché dalla motivazione emerga il suo contenuto essenziale. La pronuncia, infine, riconosce un valore limitato alla delibera che fissa i valori delle aree edificabili. Per la commissione regionale, l’atto amministrativo generale è «assimilabile ai redditometri che possono trovare disapplicazione solo a fronte di concreti elementi dimostrativi anche di fatto». Naturalmente, spetta al contribuente dimostrare con elementi di prova idonei che la valutazione fatta dall’ente impositore non sia corretta. Anche per l’Imu, i comuni sono tenuti a fornire informazioni ai contribuenti sulle variazioni urbanistiche e i cambi di destinazione dei terreni in aree edificabili. Nel caso in cui non venga inviata la comunicazione, non devono essere irrogate al titolare dell’area né sanzioni né interessi moratori sul tributo dovuto. Lo ha chiarito il dipartimento delle finanze del ministero dell’Economia, con la circolare 3/2012. Dunque, la regola imposta dall’articolo 31, comma 20, della legge 289/2002 (Finanziaria 2003) vale anche per l’Imu. Questa norma prevede che debba essere informato il contribuente delle variazioni apportate agli strumenti urbanistici. Quando i comuni attribuiscono a un terreno la natura di area fabbricabile sono obbligati a darne comunicazione al contribuente, a mezzo posta, con modalità idonee a garantire l’effettiva conoscenza. Per il dipartimento, spetta ai comuni «disciplinare autonomamente la procedura adottando lo schema più confacente alla propria organizzazione». Il mancato rispetto dell’adempimento non comporta alcuna conseguenza in ordine agli obblighi che incombono sul contribuente: il tributo sull’area è comunque dovuto. Tuttavia, precisa la circolare, in base all’articolo 10 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/2000), non possono essere richieste sanzioni e interessi. Del resto «la norma ha il fine di fornire le garanzie procedimentali poste a tutela del contribuente assurte a principio generale dell’ordinamento tributario». Il ministero, correttamente, va oltre quanto affermato dalla giurisprudenza che in passato si è limitata ad annullare le sanzioni irrogate dai comuni, riconoscendo solo la causa di non punibilità stabilita dall’articolo 6 del decreto legislativo 472/1997. Mentre lo Statuto esclude anche la richiesta degli interessi quando il comportamento del contribuente risulti posto in essere in seguito a errori o omissioni dell’amministrazione. In effetti, Il contribuente è tenuto a pagare le imposte su un’area edificabile anche se il Comune non lo abbia informato delle variazioni apportate allo strumento urbanistico e non abbia comunicato il cambio di destinazione del terreno. La Corte di cassazione, con la sentenza 15558/2009, ha ritenuto ininfluente la mancata comunicazione al proprietario, non essendo specificamente prevista una sanzione ad hoc dalla norma che ne ha imposto l’obbligo. La mancata comunicazione del cambiamento urbanistico non può avere un’incidenza sugli obblighi di dichiarazione e versamento dell’imposta, che sono autonomamente disciplinati dalla legge.
Se il comune non ha provveduto a comunicare, formalmente, il cambio di destinazione del terreno, e il contribuente violi l’obbligo di dichiarazione e di versamento, si può ritenere che ricorra una causa di non punibilità. Occorre precisare che l’articolo 31 non ha alcuna efficacia retroattiva. Pertanto, l’obbligo di comunicazione riguarda solo i cambi di destinazione dei terreni attuati a decorrere dal 1° gennaio 2003.
Le agevolazioni Le scelte dei comuni sulle agevolazioni sono condizionate dalla quota del tributo riservata allo stato. Nella predisposizione dei bilanci i comuni devono tener conto non solo delle minori entrate che comporta il riconoscimento ai contribuenti di maggiori detrazioni Imu e riduzioni di aliquote, ma anche della quota del gettito (50%) che l’articolo 13 del dl Monti (201/2011) assicura allo Stato. Le agevolazioni Imu, infatti, non possono intaccare la quota riservata all’erario.
Quindi, il costo delle agevolazioni rimane a carico dell’ente, a meno che non si tratti di benefici fiscali assicurati ai contribuenti ex lege. Gli effetti negativi per i bilanci comunali possono derivare dal riconoscimento di maggiorazioni delle detrazioni o da riduzioni di aliquote deliberate per immobili diversi dall’abitazione principale e dagli immobili rurali strumentali.
Per l’Imu gli enti non hanno la facoltà di concedere esenzioni, ma di fatto possono ottenere lo stesso risultato azzerando l’imposta, soprattutto per le categorie più deboli. Possono infatti aumentare la detrazione prevista dalla legge (200 euro più 50 euro per ogni figlio che risieda anagraficamente e dimori abitualmente nell’immobile, per un importo massimo d 400 euro, al netto della detrazione di base) fino a concorrenza dell’imposta dovuta. Tuttavia, in questi casi sono posti dei limiti ben precisi: va rispettato l’equilibrio di bilancio e non può essere aumentata l’aliquota ordinaria per gli immobili diversi dall’abitazione principale. Inoltre, nell’esercizio della potestà regolamentare nulla impedisce al comune di introdurre, come indicato nella relazione tecnica al decreto «salva Italia», «particolari mitigazioni del carico tributario per specifiche fattispecie», come riduzioni d’imposta o aliquote agevolate.
Per esempio, per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, per quelli realizzati per la vendita e non venduti dalle imprese che hanno per oggetto esclusivo o prevalente dell’attività la costruzione e l’alienazione di immobili e per quelli locati. Questi benefici fiscali non erano previsti dalla disciplina Imu, così come non era più contemplato il trattamento agevolato per gli immobili di interesse storico-artistico, per quelli dati in uso gratuito a parenti e affini e per i fabbricati posseduti dai cittadini italiani residenti all’estero. Per questi ultimi era previsto un trattamento agevolato ai fini Ici, per un solo immobile posseduto in Italia (a scelta dell’interessato), a condizione che non risultasse locato.
Fino al 2007 fruivano di detrazione e aliquota ridotta e dal 2008 anche dell’esenzione, purché il comune li avesse assimilati all’abitazione principale con regolamento adottato entro il 29 maggio 2008.
In questo senso si era espresso il Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia (direzione Federalismo fiscale), con la risoluzione 12/2008. Anche per le unità immobiliari possedute dai cittadini italiani non residenti nel territorio dello Stato a titolo di proprietà o di usufrutto in Italia, l’articolo 4 del dl fiscale ha riconosciuto ai comuni il potere di assimilarle all’abitazione principale, a condizione che non risultino locate. Per i beni merce delle imprese, invece, il legislatore si è preoccupato solo di sollecitare le amministrazioni locali a deliberare l’aliquota ridotta. L’eventuale scelta però rimane solo a carico dell’ente, che comunque in questi casi deve garantire allo Stato il 50% dell’imposta con applicazione dell’aliquota ordinaria.
Sebbene sia lodevole questo interesse in un momento di particolare crisi economica delle imprese, anche nel settore edilizio, era opportuno che la norma prevedesse l’applicazione ex lege di questo beneficio fiscale senza rinviare alle deliberazioni comunali. L’articolo 56 del dl liberalizzazioni (1/2012), infatti, stabilisce che i comuni possono ridurre l’aliquota di base fino al 3,8 per mille per i fabbricati costruiti e destinati dall’impresa costruttrice alla vendita.
L’agevolazione non può superare i 3 anni dall’ultimazione dei lavori e spetta fino a quando permane questa destinazione, a condizione che gli immobili non siano locati. L’altro beneficio che sta particolarmente a cuore al legislatore è quello che riguarda i fabbricati inagibili o inabitabili, per i quali con l’articolo 4 del dl sulle semplificazioni fiscali ha disposto la riduzione al 50% della base imponibile dell’imposta. Stesso trattamento spetta anche ai fabbricati di interesse storico o artistico.
Le esenzioni Con la nuova imposta locale viene ristretto l’ambito delle esenzioni prima riconosciute dalla disciplina Ici. Non possono più fruire dell’agevolazione fiscale gli immobili posseduti dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura. Non viene riproposta l’esenzione neppure per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili che vengono recuperati per essere destinati a attività assistenziali. Del resto l’articolo 9, comma 8, della disciplina sul federalismo fiscale municipale (decreto legislativo 23/2011) non richiama integralmente l’articolo 7 del decreto legislativo 504/1992 che elencava le tipologie di immobili esenti dal pagamento dell’Ici. La norma non richiama le lettere a) e g) dell’articolo 7. In realtà, la lettera a) viene riscritta e esclude dal beneficio gli immobili posseduti dalla camere di commercio. Lo stesso trattamento spetta agli immobili inagibili soggetti al recupero edilizio per essere destinati ad attività assistenziali.
In quest’ultimo caso è il mancato richiamo della disposizione che fa venir meno l’esenzione. Con la modifica dell’articolo 7, lettera a) vengono ridisegnate le agevolazioni anche per gli immobili posseduti dagli enti pubblici: stato, regioni, province e comuni. Sono esonerati dal pagamento dell’Imu solo quelli siti sul proprio territorio purché destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. La novità è rappresentata dal fatto che l’esonero è condizionato dalla destinazione degli immobili e non compete più per quelli ubicati sul territorio di altri enti. Gli immobili devono essere diretti a soddisfare compiti istituzionali dell’ente pubblico (sede o ufficio) che ne è proprietario. Non è sufficiente che li metta a disposizione di terzi, anche se per obbligo di legge.
È indispensabile che l’utilizzo avvenga in forma immediata e diretta, e cioè da soggetti interni alla struttura organizzativo- amministrativa dell’ente, poiché solo in questo caso l’uso può essere caratterizzato da fini istituzionali. Con le modifiche apportate alla disciplina Imu dall’articolo 4 del dl sulle semplificazioni fiscali è stato trovato un rimedio per escludere che i comuni fossero soggetti a pagare la quota di imposta (50%) riservata allo stato. In base a questa disposizione, infatti, gli immobili di proprietà comunale siti sul loro territorio non sono soggetti al pagamento dell’Imu anche se non destinati a compiti istituzionali. Per questi immobili non è più dovuta la quota di imposta riservata allo stato. Viene invece confermata l’esenzione per gli immobili posseduti e utilizzati dagli enti non commerciali. L’articolo 7, comma 1), lettera i) riconosce l’esenzione alle attività ricreative, culturali, didattiche, sportive, assistenziali, sanitarie e così via svolte da questi enti, purché non abbiano natura esclusivamente commerciale.
La questione del trattamento fiscale che deve essere riservato a questi immobili è di attualità, in quanto il legislatore ha inteso porre un freno a queste agevolazioni, imponendo come condizione che gli immobili non siano destinati a attività commerciali. A dire il vero la Cassazione (sentenza 23548 dell’11 novembre 2011), al di là dell’incerta formulazione della norma, anche di recente ha sostenuto che un fabbricato utilizzato da un ente religioso per l’assistenza di pensionati, che pagano delle rette mensili, è soggetto al pagamento dell’imposta perché l’attività è svolta con finalità commerciali.
L’articolo 91 bis del dl liberalizzazioni (1/2012), in sede di conversione in legge, ha previsto che gli enti ecclesiastici e non profit pagano l’Imu se sugli immobili posseduti vengono svolte attività didattiche, ricreative, sportive, assistenziali, culturali e via dicendo in forma commerciale. Tuttavia, qualora l’unità immobiliare abbia un’utilizzazione mista, l’esenzione si applica solo sulla parte nella quale si svolge l’attività non commerciale, sempre che sia identificabile. La parte dell’immobile dotata di autonomia funzionale e reddituale permanente, però, deve essere iscritta in Catasto e la rendita produce effetti a partire dal 1° gennaio 2013.
Nel caso in cui non sia possibile accatastarla autonomamente, l’agevolazione spetta in proporzione all’utilizzazione non commerciale dell’immobile che deve risultare da apposita dichiarazione. Dopo tante polemiche che hanno riguardato il trattamento agevolato riservato agli immobili della Chiesa e i rilievi giuridici fatti in sede comunitaria, è stata trovata una soluzione pasticciata che rischia di far aumentare il contenzioso tra comuni e enti non commerciali nei prossimi anni. In primo luogo, viene snaturata la norma che disciplina l’esenzione Ici (articolo 7, comma 1 lettera i) del decreto legislativo 504/1992), applicabile anche all’Imu, che nella sua formulazione originaria richiedeva una destinazione esclusiva per il riconoscimento dei benefici fiscali. Del resto, è oltremodo difficoltoso individuare all’interno di uno stesso immobile, con un’unica rendita, la parte destinata a attività commerciali. Quindi, nei casi in cui un immobile non possa essere frazionato, perché non è possibile individuare una parte che abbia autonomia funzionale e reddituale, sarà demandato al contribuente il compito di fissarne le proporzioni e certificare quale sia quella destinata a attività non commerciali.
È infatti previsto che con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione, verranno indicate le modalità e le procedure relative alla dichiarazione che dovranno rilasciare gli enti interessati e gli elementi rilevanti per stabilire il rapporto proporzionale. Spetta invece l’esenzione Imu per i fabbricati, e loro pertinenze, destinati esclusivamente all’esercizio del culto (chiese, moschee), purché compatibile con i principi contenuti negli articoli 8 e 19 della Costituzione. Quindi, un fabbricato utilizzato dal parroco o dal vescovo non è assoggettato al pagamento dell’imposta anche se non si tratta di immobile avente finalità dirette di culto, a condizione però che venga destinato allo svolgimento delle funzioni pastorali. L’esenzione viene mantenuta in vita anche per i terreni agricoli ricadenti in aree montane o di collina.
Il dipartimento delle finanze del ministero dell’economia, con la circolare 3/2012, ha chiarito che sono applicabili anche all’Imu le agevolazioni previste dall’articolo 21 del decreto legislativo 460/1997, secondo cui le amministrazioni locali possono deliberare nei confronti delle Onlus la riduzione o l’esenzione dal «pagamento dei tributi di loro pertinenza e dai connessi adempimenti». Tuttavia, essendo una libera scelta del comune, «l’esenzione non può operare nei confronti della quota di imposta riservata allo Stato».
La dichiarazione Imu La dichiarazione Ici vale anche per l’Imu. I contribuenti che hanno già assolto all’obbligo non sono tenuti a ripresentarla, nonostante si tratti di un tributo diverso. Con la nuova imposta locale viene ridotto a 90 giorni il termine per denunciare gli immobili posseduti.
Tuttavia, per quelli per i quali l’obbligo è sorto dal 1° gennaio 2012, la dichiarazione deve essere presentata entro il 1° ottobre di quest’anno. Secondo il Dipartimento delle finanze (circolare 3/2012), il termine del 1° ottobre va rispettato da tutti i contribuenti (proprietari, usufruttuari e titolari di altri diritti reali) per i quali l’obbligo è sorto dall’inizio dell’anno. Naturalmente, occorre comunque garantire agli interessati il rispetto del termine minimo di 90 giorni. «Pertanto, se l’obbligo dichiarativo è sorto, ad esempio, il 31 agosto il contribuente potrà presentare la dichiarazione Imu entro il 29 novembre 2012». Mentre per i titolari di fabbricati rurali non censiti in Catasto, i 90 giorni decorrono dal 30 novembre 2012, che è il termine ultimo fissato dall’articolo 13 del dl «salva Italia» (201/2011) entro il quale i fabbricati iscritti al catasto terreni devono transitare in quello urbano.
Per semplificare la vita ai contribuenti, non è disposto per la nuova imposta municipale un autonomo obbligo di ripresentare una tantum la dichiarazione. Cosa che invece sarebbe stata auspicabile, per consentire alle amministrazioni locali di acquisire le informazioni necessarie alla gestione dell’imposta e per aggiornare le banche dati. Il problema riguarda, per esempio, gli immobili adibiti dal contribuente a pertinenze dell’abitazione principale, nel caso in cui ne possieda più di una della stessa tipologia (due garage inquadrati catastalmente nella categoria C/6). Essendo limitato il beneficio solo ad uno dei due garage, il contribuente dovrebbe dichiarare quale dei due intende destinare al servizio dell’abitazione, mentre sull’altro il tributo va pagato in via ordinaria, con l’aliquota del 7,6 per mille. Invece è più semplice per il comune accertare, attraverso l’anagrafe, se il contribuente abbia diritto all’ulteriore detrazione di 50 euro per ogni figlio, di età non superiore a 26 anni.
Nella circolare ministeriale viene posto in evidenza che la lettura coordinata delle varie disposizioni di legge che disciplinano l’Imu fa ritenere che probabilmente verranno ulteriormente ridotte le ipotesi in cui è richiesto di presentare la dichiarazione. L’articolo 13 del decreto Monti, infatti, rinvia a un apposito decreto del Ministero dell’economia e delle finanze sia l’approvazione del nuovo modello di dichiarazione sia l’individuazione dei casi in cui ancora persiste l’obbligo. Del resto, già il decreto ministeriale del 23 aprile 2008 aveva esteso l’esclusione dell’obbligo dichiarativo oltre i casi previsti dall’articolo 37, comma 53 del dl 223/2006. Come per l’Ici, il contribuente non è tenuto a presentare la dichiarazione Imu se gli elementi rilevanti ai fini dell’imposta sono acquisibili dai comuni attraverso la consultazione della banca dati catastale. Nello specifico, tra i casi più significativi, l’adempimento è richiesto quando: l’immobile viene concesso in locazione finanziaria, un terreno agricolo diventa area edificabile o, viceversa, l’area diviene edificabile in seguito alla demolizione di un fabbricato. Quindi, va dichiarato qualsiasi atto costitutivo, modificativo o traslativo del diritto che abbia avuto a oggetto un’area fabbricabile. Il valore dell’area, che è quello di mercato, deve sempre essere dichiarato dal contribuente, poiché questa informazione non è presente nella banca dati catastale. Ecco perché l’obbligo non sussiste quando viene alienata un’area fabbricabile, se non ha subito modifiche il suo valore di mercato rispetto a quello dichiarato in precedenza. Inoltre, le riduzioni d’imposta devono essere dichiarate sia se si acquista sia se si perde il relativo diritto. L’obbligo non è abolito neppure per gli immobili posseduti dalle imprese, che sono tenute a dichiarare il valore sulla base delle scritture contabili fino all’anno di attribuzione della rendita catastale.
La dichiarazione, poi, deve essere presentata per gli immobili relativamente ai quali siano intervenute delle modifiche rilevanti ai fini della determinazione dell’imposta dovuta e del soggetto obbligato al pagamento. Pertanto, vanno dichiarate le modifiche che possono riguardare titolarità del possesso, struttura o destinazione dell’immobile. |
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